16 Novembre 2025: Palladium film festival

Di Carolina Maccione

Il 16 novembre 2025 si è tenuta al Teatro Palladium la premiazione del concorso: ‘‘Carta Bianca’’, un’iniziativa riservata a registi under 30, che da anni è parte integrante del ‘‘Palladium Film Festival’’. Un’iniziativa incentrata sui giovani, sulle loro produzioni. Un concorso importante, che non si lascia sfuggire quasi nulla, spaziando dai corti di finzione ai documentari fino alle web series. 

Personalmente vivere questa esperienza da spettatrice mi ha ricordato un’intervista che lessi tempo fa, dove François Truffaut parlava della sua prima visione cinematografica. La sua paura più grande, disse, risiedeva nel fatto che quel film prima o poi sarebbe finito. Ora i tempi sono diversi, la settima arte è più accessibile. Possiamo vedere un film o un cortometraggio sdraiati sul letto o seduti sul divano. Ma, il 16 novembre 2025, per un istante, mi è sembrato di rivivere quella magia di cui parlava Truffaut: il non sapere quanti minuti sarebbero passati prima che l’incantesimo di una storia sarebbe arrivato a termine, perché il tempo sembrava dilatarsi e, al tempo stesso, passare troppo in fretta e io, come molti in sala, non avevamo voglia di guardare l’orologio.

Le opere dei ragazzi del concorso Carta Bianca tra loro non hanno quasi niente in comune. Ma di certo condividono la passione per il cinema e per il racconto e regalano al pubblico il desiderio di guardarli all’infinito.

Il festival prevede l’assegnazione di tre premi. il primo decretato dal pubblico votante, il secondo assegnato ai giovani registi e alle loro produzioni da una giuria di esperti del settore e il terzo da una giuria composta da giovanissimi. 

Il momento della premiazione è stato carico di tensione ma anche di speranza.

Speranza per un cinema giovane, nuovo e forse anche un po ‘ diverso. Un cinema libero che non ha nessun vezzo se non quello di raccontare e far ragionare, oltre che affascinare e basta. 

Il 16 novembre, prima delle premiazioni, mi è capitato di soffrire e ridere di tenerezza con ‘‘Dulcibella’’ di Francesca Giusto.

Mi è capitato di sorridere con la premiazione di ‘‘Time Out- Out of time’’ di Francesco Sacco e con la premiazione di “Ombre” di Francesca Occhipinti, premio per le Università da parte del pubblico.

Poi ho ricordato il teatro e la perdita interiore che lascia la fine di un amore con ‘‘La terza fila’’ di Francesco Giannuzzi, corto tra l’altro molto amato anche dal pubblico in sala e vincitore della categoria “scuole di cinema” sempre da parte del pubblico.

Ho adorato la delicatezza e l’amore per la scrittura di ‘‘Quando la storia finisce’’ di Gabriele Gambacorta.

Ho percepito sulla mia pelle e nel mio cuore il dolore della violenza di “Metamorfosi” di Angelo Piccione. E ho respirato cose vuol dire ‘‘Far parte di qualcosa’’ anche se solo da spettatrice.  Ho amato ogni singolo cortometraggio per motivazioni diverse e durante le varie premiazioni non sapevo per quale cortometraggio tifare, perché la verità è che, a dispetto delle preferenze di tema o genere cinematografico, l’arte è quel qualcosa che ti smuove l’anima. E, tutti i registi del concorso Carta Bianca, sono riusciti, ognuno in modo diverso, a smuovere questo profondo amore dentro di me.

Tre giornate dedicate ai nuovi ragazzi del cinema e soprattutto alle loro opere;

Come “Marcello” di Fabio Rossi, proiettato il 15 Novembre e vincitore del premio della giuria, che ha regalato emozioni e forse anche qualcosa in più.

Mi dispiace vivamente non poter citare tutti i registi e i loro lavori. Molti di questi nati, probabilmente, tra le aule della nostra università. Spero mi perdoneranno. Nel dubbio io perdono loro il fatto che i loro lavori oltre ad avere un inizio avevano, ahimè, anche una fine.

Il 16 novembre ho vissuto luci e ombre, dolcezza e brutalità e, per un istante, mi sono sentita parte della giuria senza, però, perdere quella patina di incredula magia che solo uno spettatore o una spettatrice può vivere. 

Raccontare storie è difficile, ancor di più nel cinema ma a volte riesce maledettamente tanto bene e il pubblico finisce per vivere mille vite insieme.

Spero che queste giornate abbiano lasciato anche a voi almeno una parte di quello che hanno lasciato a me, perché il cinema è sì un mezzo per narrare, ma è anche un modo per sognare e, alle volte, sentirsi meno soli.

La solitudine, tema vissuto anche tramite la presentazione del film “Nonostante”(2024), proiettato dopo la premiazione e interpretato e diretto da Valerio Mastandrea, con cui abbiamo vissuto un incontro carico di emozioni.

La trama è basata principalmente sulla storia d’amore nata tra le anime di due persone in coma. È una storia forse semplice a livello strutturale ma non per questo non significava. Le anime di questi pazienti vivono una vita a sé durante il coma.. si conoscono e si riconoscono, soffrono, pensano a ciò che potrebbero lasciare o a ciò che potrebbero dimenticare… perché nel mondo di “Nonostante” ci sono due opportunità: “tornare su” ovvero uscire dal coma, o morire.

Il problema del “tornare su?” Non ricorderai niente di quello che la tua anima ha vissuto mentre il tuo corpo era fermo.

Mi ha colpito particolarmente una frase di quel film: «Nessuno vuole morire da solo.» sentirsi meno soli è un’ardua impresa, ma a volte ci sono delle piccole eccezioni. È stato estremamente interessante sentire il regista e interprete del film parlare di alcune scelte, a volte sofferte, che lo hanno portato alla riuscita del film. Alcune scelte spontanee sono necessarie per una riuscita. Poi ci sono altre scelte, altre circostanze, quelle che ci fanno dubitare anche di una cosa che eravamo convinti di volere fino a poco prima; ad esempio la donna di cui s’innamora il protagonista, che per gran parte del tempo sembrava odiare quella condizione “sospesa” ma al tempo stesso, quando si innamora a sua volta di lui, sente il bisogno di scusarsi perché sa di stare meglio e che tra poco “tornerà su”. Non c’è una morale in questo film, ma c’è una consapevolezza (per quanto mi riguarda) che due persone sole possono essere meno sole insieme.

Siamo corpi vivi e capaci: sul 25 novembre e sull’importanza di occupare il proprio spazio

di Alice Macchiusi

Oggi 25 novembre ricorre la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne; come Pour Parler riteniamo necessario proporre una riflessione sul tema che non sia fine a sé stessa: l’importanza di questa giornata non può e non deve esaurirsi in simboli e numeri commemorativi, oggi più che mai è doveroso interrogarsi sul nostro pensare e sul nostro agire nel quotidiano. Siamo corpi vivi e capaci, non vittime.

L’Osservatorio Nazionale di Non Una Di Meno ha riportato, in data 22 novembre, 77 casi di femminicidio dall’inizio dell’anno; non si tratta di tragedia ma di violenza sistemica. Dietro quel numero si compattano 77 vite, tutte simili e tutte diverse al contempo: si pensi a Ilaria Sula, a Sara Campanella, a Martina Carbonaro; ancora, si pensi a Hayat Fatimi, a Tiziana Vinci, a Cinzia Pinna. La loro perdita e il dolore che ne consegue devono essere elaborati pubblicamente: ridurre queste vite ad un numero non ci permette di progredire nel dibattitto sulla violenza di genere poiché viene meno il senso di responsabilità, personale e istituzionale.

Disporre di dati oggettivi e tangibili su cui poggiarsi deve accompagnarsi all’urgenza di dare una faccia, una storia, a quei numeri. Oggi più che mai è necessario ricordare tutte le sorelle uccise e ricordare perché sono state uccise. In occasione della Conferenza istituzionale contro il femminicidio tenutasi pochi giorni fa a Roma, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha voluto ricordarci che le ragioni della prevaricazione maschile sulle donne è da cercare nel nostro codice genetico; la ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia Roccella ha invece voluto ribadirci che l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole non è correlata a una diminuzione dei femminicidi, declassandola, ancora, a battaglia ideologica.

Minimizzare le ragioni della violenza uccide ancora una volta le nostre sorelle, le priva di ogni possibilità di riscatto e giustizia. È difficile immaginare un futuro diverso se le premesse e se le soluzioni proposte sono di questo tenore: l’impegno collettivo sembra essere in tal senso l’unica via percorribile. Il lavoro svolto da Non Una di Meno in primis e dalle realtà transfemministe tutte è da lodare: sono previste in questa settimana mobilitazioni, presidi, assemblee pubbliche, incontri ed eventi che hanno sì l’obiettivo di sensibilizzare ma, ancor prima, di renderci visibili, riconoscibili. Come Pour Parler abbiamo partecipato al corteo dello scorso 22 novembre indetto a Roma: la marea transfemminista ha sommerso la città, passando per le vie del centro – la manifestazione è partita da Piazza della Repubblica ed è arrivata a San Giovanni – e riappropriandosi dei propri spazi.

Siamo corpi vivi e capaci: la società eteropatriarcale ha storicamente relegato le donne e le soggettività queer a margine dello spazio politico e pubblico, ammettendone l’accesso solo nel rispetto dei codici patriarcali ed eteronormati. Manifestare è riappropriarsi del proprio spazio, è stabilire nuovi nessi con la realtà e negoziare significati capaci di rendere giustizia alla nostra esperienza. Mai come in questi giorni, nonostante l’affollamento delle strade, si respira un’aria intima: è la condivisione di un sentire e di una volontà che, da singole, diventano comuni. Occupare il nostro spazio, ora nello specifico quello pubblico, è ammettere l’esistenza di un conflitto politico radicato e radicale nei nostri corpi; vivere questi momenti di dissenso e protesta collettivi equivale a riappropriarsi dei corpi stessi, è riscatto della propria corporeità, è senso di appartenenza, è riconoscersi.

Il personale è davvero politico: per questo l’agire collettivo deve essere il punto di partenza per il contrasto alla violenza di genere. L’invito è quindi a partecipare alle iniziative programmate nei prossimi giorni, oltre che a informarsi e restare vigili. Link per consultare i dati raccolti dall’Osservatorio di Non Una di Meno.

https://osservatorionazionale.nonunadimeno.netLink con l’elenco delle manifestazioni indette https://www.instagram.com/p/DRaNdlLjo71/?igsh=NWJtejFyZHhlZnhu

Donna Ferrato: l’obiettivo che denuncia

Di Francesca Bordi

La fotografia, sin dalla sua nascita, non è stata soltanto un mezzo per fissare i ricordi o immortalare attimi di vita quotidiana. È stata, e continua a essere, uno strumento capace di rivelare ciò che spesso la società preferisce ignorare, un linguaggio visivo in grado di denunciare ingiustizie nascoste dietro la superficie dell’apparente normalità. In occasione del 25 novembre, giornata internazionale dedicata alla lotta contro la violenza sulle donne, questo ruolo della fotografia emerge con forza ancora maggiore. La ricorrenza ci ricorda quanto sia fondamentale coltivare uno sguardo attento, consapevole e soprattutto coraggioso, capace di rompere il silenzio che per troppo tempo ha avvolto storie, volti e vissuti femminili. A farlo, spesso, sono state proprio le donne che hanno impugnato la macchina fotografica e hanno deciso di dirigere l’obiettivo verso realtà scomode. Non erano semplici osservatrici distaccate: erano donne che guardavano altre donne, riconoscendone la vulnerabilità, la forza, le contraddizioni. Attraverso le loro immagini, offrivano non solo testimonianze, ma veri e propri atti di solidarietà e resistenza. Tra le figure più significative spicca Donna Ferrato, che negli anni ’80 realizzò un lavoro documentario senza precedenti sulla violenza domestica negli Stati Uniti. Le sue fotografie – crude, intime, spesso scattate in momenti di emergenza – portarono alla luce una realtà che raramente veniva rappresentata: la casa, tradizionalmente percepita come luogo di protezione e sicurezza, mostrata invece come uno spazio di pericolo, in cui la violenza si consumava nel silenzio delle quattro mura. Con il suo libro Living with the Enemy, Ferrato raccolse anni di testimonianze visive, costruendo un archivio potente che contribuì a cambiare la percezione pubblica del problema. Tra le immagini più intense vi è quella di Elizabeth, una donna ritratta mentre piange. In quello scatto emerge una luce particolare, una luminosità che non è solo fisica ma emotiva: Elizabeth appare in tutta la sua consapevolezza, come se il dolore che la attraversa fosse al tempo stesso fragilità e forza. Il modo in cui si aggrappa al tavolo con il braccio, il pugno serrato – gesto che racchiude rabbia, tensione, ma anche la volontà di non trasformare quella rabbia in aggressività – raccontano più di qualsiasi parola. È un pianto che non si sente, eppure lo si percepisce con una potenza quasi tangibile attraverso la fotografia. Ferrato non cattura soltanto un’emozione: cattura il momento in cui una donna affronta il proprio vissuto, e in quello sguardo, in quella postura, emerge una verità difficile da ignorare. Scatti come questi ci ricordano quanto la fotografia possa essere un grido muto che chiede soltanto di essere ascoltato e la necessità nel non voltarsi più dall’altra parte.

Recensione “Storia di due anime”

Chiara Di Fonzo

Che cosa resta di noi quando oltrepassiamo i confini di un’unica vita? “Storia di due anime”, romanzo d’esordio di Alex Landragin, parte proprio da questa domanda: un invito a smarrirsi con curiosità nella possibilità che un’unica anima non sia abbastanza, che possa attraversare secoli, luoghi e corpi diversi, inseguendo un legame che non conosce confini, tramite un semplice sguardo. Il lettore viene accolto da un rilegatore anonimo che dichiara di aver messo insieme tre manoscritti misteriosi, rubati, nascosti, forse maledetti. Ed è già chiaro che nulla in questo libro è davvero dove dovrebbe essere: né gli autori, né i personaggi, né i confini tra le epoche. Landragin costruisce un’opera che sembra un romanzo, un gioco letterario e un labirinto temporale allo stesso tempo. Una delle prime sorprese, e una delle più riuscite, è la doppia modalità di lettura. Il libro può essere affrontato nell’ordine tradizionale, dalla prima all’ultima pagina; oppure seguendo la cosiddetta “Sequenza della Baronessa”, un percorso alternativo suggerito dall’editore che riassembla i capitoli e rivela un’altra struttura narrativa possibile. Non è solo un espediente: è il cuore del romanzo; la storia cambia tono, ritmo e persino significato a seconda del percorso scelto. Il lettore diventa co-autore, scegliendo quale anima del libro chiamare alla luce per prima. Due percorsi narrativi, due esperienze distinte, una dualità coerente con il titolo e con l’intero impianto tematico del romanzo. È un espediente che incuriosisce subito, e che comunica al lettore una verità semplice: questo libro non si legge, lo si abita, esplora e ricompone come un enigma fatto di inchiostro. Per chi ama il gioco metaletterario, questa struttura è magnetica: richiama Calvino, Borges, Cortázar, ma con una voce molto contemporanea, che risulta accessibile pur restando sofisticata. Il romanzo è composto da tre racconti autonomi ma indissolubilmente legati tra loro, che attraversano continenti, secoli, generi letterari: dal gotico baudelairiano al noir parigino, fino all’epica mitica del Pacifico. Seppur diversi, hanno un filo comune che li attraversa senza mai esplicitarsi del tutto, un legame profondo, antico, quasi cosmico, tra due anime che sembrano rincorrersi attraverso le epoche. Ogni storia funziona da sola, ma quando la si legge nel contesto delle altre, acquista un’eco, un riverbero, un presagio. Landragin non spiega mai fino in fondo, ma suggerisce: la memoria come condanna o salvezza, l’amore come destino o come prigione, l’identità come qualcosa che si ricostruisce a ogni rinascita e ad ogni perdita. Lo stile di Landragin è sorprendentemente limpido, musicale, quasi ipnotico; spesso poetico, ma senza essere artificioso. Riesce a evocare atmosfere diverse senza perdere coesione. Il romanzo sfiora generi diversi ma non si lascia definire da nessuno di essi. Le descrizioni sono dense di atmosfera, soprattutto nelle sezioni ambientate nel passato; e al tempo stesso, l’alternanza delle voci narrative, che cambiano registro, distanza e intensità, conferisce all’opera un valore sperimentale che la rende diversa da molte altre pubblicazioni contemporanee. È un testo “anomalo”, ibrido, che gioca con le categorie e lascia volutamente delle zone d’ombra. E sono proprio quelle ombre a renderlo così seducente. I personaggi sembrano respingersi e ricongiungersi attraverso il tempo come se fossero le varie incarnazioni di una stessa energia persistente. La narrazione non è mai lineare, eppure è animata da un’evidente coerenza interna, ogni tassello sembra dialogare con quello successivo e precedente, in una struttura che funziona come un mosaico, e che si svela solo quando il lettore accetta di perdersi un po’ al suo interno. I protagonisti sfuggono alla stabilità, si trasformano, assumono ruoli nuovi; sono anime che ritornano, si riconoscono, si smarriscono di nuovo, all’interno di un ciclo apparentemente infinito. Naturalmente, una struttura così ambiziosa comporta anche qualche rischio. Il ritmo non è sempre uniforme; alcune parti procedono lente, altre accelerano bruscamente; alcuni lettori potrebbero percepire l’intreccio come eccessivamente complesso o artificioso. La doppia modalità di lettura, pur geniale, può risultare un gioco più formale che necessario, e richiede un certo impegno per essere apprezzata pienamente. Tuttavia, questi elementi non diminuiscono il valore complessivo dell’opera, anzi, in un panorama editoriale spesso incline alla prevedibilità, a “Storia di due anime” va riconosciuto il merito di osare. Forse, infondo, “Storia di due anime” non chiede al lettore di trovare tutte le risposte, ma di accettare che alcune storie vivono proprio nei loro vuoti, nei salti, nelle pieghe del tempo che non possiamo ricostruire. È davvero possibile che due anime si cerchino attraverso i secoli? Quanto di ciò che ricordiamo ci appartiene, e quanto invece è ereditato, trasmesso, immaginato? E, soprattutto, quante vite servono per capire chi siamo davvero? Questo libro non offre soluzioni, ma indizi, tracce, spiragli. Sta al lettore decidere se seguirli, o se perdersi di nuovo al loro interno, voltando semplicemente la prima pagina.

Conoscere Christopher Anderson

Fotografia come esperienza umana

di Alice Stracca Pansa

“Chris, you better start making pictures now, because in 45 minutes we will all be dead”.

È questa frase, pronunciata in mezzo al nulla dell’Oceano Atlantico, a segnare un punto di non ritorno per Christopher Anderson. Si trovava su una piccola barca di legno, costruita a mano, insieme a 44 rifugiati Haitiani. Destinazione: Stati Uniti. Anderson inizia a scattare nel momento più tragico: al largo dei Caraibi, la barca chiamata “Believe in God” comincia ad affondare. È un momento decisivo per Christopher, come persona e come fotografo. Si rende conto così che la fotografia è il mezzo per testimoniare la propria esperienza umana.

Christopher Anderoson, “Desperate passage”, la realtà del viaggio verso gli Stati Uniti (1999).

Fortunatamente, la potenziale tragedia, si risolve con la salvezza di tutti i passeggeri. “America, or Death” è la copertina del New York Times Magazine per cui Christopher lavora come inviato. Le immagini, cariche di tensione, gli varranno il Robert Capa Gold Medal nel 2000. Questo riconoscimento internazionale premia l’intraprendenza e il coraggio del fotografo nella realizzazione del reportage. É l’inizio di una carriera fatta di storie in equilibrio tra testimonianza e introspezione, che culminerà nella prestigiosa Magnum Photos nel 2005. Negli anni successivi, Anderson viene inviato in diverse situazioni di conflitto: Afghanistan, Iraq, Libano, Israele e Palestina. Sono più la sua curiosità e sete di conoscenza, che l’interesse per la professione in sé, a spingerlo ad addentrarsi nel mondodella fotografia di guerra. E lo fa con grande sensibilità. Nei suoi scatti, si evince la profonda vicinanza rispetto a ciò che vede e vive, partecipe della sofferenza delle vittime della storia.

Christopher Anderson, Premio World Press 2008 nella sezione “Daily Life” per aver documentato la vita quotidiana nei dintorni di Betlemme, durante il conflitto tra Israele ed Hezbollah.

Sono anni intensi per il fotografo canadese, che vede svuotato del senso originario il documentare gli orrori della guerra. La macchina fotografica, è inizialmente per lui via di fuga per allontanarsi dalla quotidianità angusta della piccola città texana di Abilene, dove è cresciuto. Poi, diventa lo strumento che gli vale il suo primo lavoro di fotografo quando si trasferisce a New York. Nel 2008, due eventi segnano la vita di Anderson: la nascita del suo primo figlio, e la malattia del padre, un cancro che lo porterà alla morte in pochi anni. Christopher decide di allontanarsi definitivamente dalla fotografia di guerra, dalle storie degli altri, per concentrarsi sulla sua. Inizialmente, scatta per sé stesso, per immortalare l’inizio di una vita, e la fine di un’altra. Per lasciare un ricordo familiare. Ma si accorge ben presto di star costruendo l’opera più importante della sua carriera: “SON”. Tuttavia, la virata di Christopher Anderson dal foto-giornalismo in situazioni di conflitto alla ritrattistica intima, non significa uno sradicamento la sua Fotografia. Infatti, sebbene la direzione dell’obiettivo fotografico sia cambiata, il fine è lo stesso: catturare un’emozione, e riuscire a trasmetterla attraverso un’immagine.Non è la luce giusta, né il tecnicismo della composizione perfetta, a far sì che una fotografia rimanga impressa nel tempo e nella memoria. Nel totale caos visivo in cui siamo immersi oggi, ciò che determina la longevità di un’immagine, è la sua autenticità. Lo sguardo di Anderson fugge dalla banalizzazione delle situazioni, e delle relazioni. L’intensità delle immagini, e l’urgenza di fare trasparire l’energia della realtà, sono alla base della sua potente opera fotografica e umana. A.S.P

Cinque fotografi e fotografe palestinesi

Di Agnese Bettucci

“Being a journalist in Gaza feels like you’re dying on the inside over and over again.

– Samar Abu Elouf

Karimeh Abbud, Jaafar Ashtiyeh, Samar Abu Elouf, Fatima Shbair, Shadi Nael Al-Tabatibi sono stati e sono cinque fotografi palestinesi, ognuno con la propria storia, una differente dall’altra. 

Nonostante questo, sono accomunati da un elemento: tutti loro,infatti, sono abitanti di una terra lacerata, vessata e massacrata, una terra dove però la vita ancora, a fatica, resiste. 

Karimeh Abbud (كريمة عبّود

Karimeh Abbud nasce a Shefa-‘Amr, il 18 novembre 1893 da una famiglia rinomata e stimata. 

Grazie alla madre, insegnate, e al padre, pastore laico e appassionato di poesia, vive in un ambiente colto e prossimo all’arte: è proprio il padre infatti a regalarle una macchina fotografica per il suo diciassettesimo compleanno.

Abbud inizia a lavorare come fotografa fra il 1918 e il 1919; oltre ad essere la prima fotografa donna della regione, in cui la figura professionale di fotografo all’epoca è riservata agli uomini, Abbud nell’arco della sua carriera apre quattro studi fotografici, rispettivamente a Nazareth, Haifa, Gerusalemme e Betlemme. 

Il soggetto prediletto delle fotografie di Abbud è la vita in Palestina; foto di paesaggi, foto di matrimoni e cerimoniereligiose. 

Proprio per questo i suoi scatti diventano una controinformazione alla propaganda Sionista degli anni ’20 e ‘30: in quegli anni infatti, dato l’acuirsi delle lotte e dei disordini nella regione, il movimento sionista ebraico ingaggia dei fotografi che ritraggonola Palestina come una terra desolata, una “terra senza popolo”, adatta e pronta, quindi, ad ospitare “il popolo senza terra”. 

Le opere di Abbud quindi assumono un importante significato politico: esse dimostrano che quella terra non solo non è deserta, disabitata e selvaggia, ma anche è abitata da un popolo che pullula di vita, di tradizioni e di cultura.

Proprio per questa forte valenza politica, molte foto di Abbudvengono confiscate dalle milizie sioniste durante la Nakba (1948);Karimeh Abbud muore poco dopo, nel 1955, a Nazareth. 

Ad oggi conosciamo il suo lavoro grazie al collezionista israeliano Bouky Boaz che, nel 2006, rende pubblica la collezione che conta 300 foto dell’artista. 

Jaafar Ashtiyeh 

Jaafar Ashtiyeh è nato nel 1968 a Nablus, nel nord della Cisgiordania, territorio palestinese occupato da Israele dal 1967.

Il primo incarico internazionale da fotoreporter arriva nel 1996 per conto dell’Agence France-Presse (AFP), per la quale lavora ancora oggi. 

Da circa quarant’anni si fa portavoce, tramite le sue foto, della storia e della vita della Palestina: i suoi scatti sono specchi su cui la quotidianità di quella terra si riflette senza censure e senza pietà. 
Nel 2017 Ashtiyeh ha conseguito a Dubai “L’Arab Journalism Award” e ,“L’Arabian Business”, l’ha inserito tra le cento persone più influenti degli Emirati Arabi; nello stesso anno grazie alla forte influenza sull’opinione pubblica dei suoi scatti, riceve, negli Stati Uniti, la Menzione d’Onore nell’ambito della International News Single Category al Photo Contest della National Press Photographers Association (NPPA). 

Pochi giorni fa, il 10 ottobre 2025, Ashtiyeh è rimasto ferito in un attacco dei coloni Israeliani mentre documentava un’azione di solidarietà, da parte di attivisti israeliani e non, nei confronti degli abitanti del villaggio di Beita, dopo i ripetuti attacchi di coloni israeliani contro i campi di ulivi. 

Ashtiyeh è stato colpito da diversi sassi alla schiena, al braccio e alla mano, le auto, fra cui quella del fotoreporter, sono state prese a sassate e poi incendiate dagli assalitori: Ashtiyeh dopo l’attacco ha dichiarato che se non fosse riuscito a scappare, probabilmente l’avrebbero ucciso, data la violenza brutale dell’attacco.

Samar Abu Elouf  (سمر أبو العوف

Samar Abu Elouf è l’autrice del famoso scatto “Mahmoud Ajjour, Aged Nine”, con cui ha vinto il World Press Photo Of the year 2025. 

Abu Elouf nasce nel 1983 a Gaza ed entra in contatto con la fotografia nel 2010: scatta le prime fotografie dal suo smartphone, poco dopo però, decisa ad essere più di una moglie obbediente,dedita esclusivamente ai figli e alla casa, Abu Elouf inizia a studiare autonomamente per diventare fotografa professionista. 

Samar, affascinata dalla sua terra in cui la vita e la morte si alternano a ritmi feroci, inizia a fotografare non solo i paesaggi lacerati dagli attacchi israeliani, ma anche la vitalità del popolo palestinese, racchiusa nelle fotografie dei bambini nei campi profughi o nei ritratti delle donne palestinesi. 

Samar Abu Elouf riceve il suo primo incarico professionale durante la guerra del 2012, anche chiamata operazione Colonna di nuvola”, una delle operazioni militari più devastanti lanciata da Israele su Gaza; dal 2012 la fotografa ricopre incessantemente il ruolo di fotoreporter sulla striscia di Gaza. 

Dopo il 7 ottobre 2023, Samar Abu Elouf vive per lungo tempo in una Jeep per poter documentare ciò che accade nella Striscia e, dopo pochi mesi, la sua casa viene rasa al suolo.

A distanza di due anni dal 7 ottobre, Samar Abu Elouf vive con la sua famiglia in esilio a Doha, nell’attesa, un giorno, di ritornare nella sua terra. 

Fatima Shbair

Fatima Shbair, classe ’97, è una fotogiornalista palestinese, lavora e vive a Gaza City. 

Dopo un periodo di studi economici, Shbair, da sempre affascinata dal documentare storie, culture e problemi sociali, inizia a studiare giornalismo. 

Bisognosa di più strumenti possibili per documentare il mondo che la circonda, dal 2013 al 2017, Shbair studia autonomamente fotografia, nonostante gli scoraggiamenti e le difficoltà impostele dall’ambiente conservatore e patriarcale. 

Nel 2020 arrivano i primi lavori internazionali per conto di Getty Images and The New York Timeil compito di Shbair è quello di documentare le tensioni crescenti fra Israele e Palestina. 

Le sue opere sono state esibite presso l’UAE in Palestina, a Londra e a Parigi. Ad oggi lavora come fotogiornalista freelance ed è una collaboratrice di “Everyday Middle East”, profilo Instagram volto a dare visibilità a tutti i fotografi del Medioriente e del Nord Africa. 

Shadi Nael Al-Tabatibi

Shadi Nael Al-Tabatibi è un fotografo palestinese originario di Gaza; si avvicina alla fotografia nel 2013, anno in cui riesce a comprare una macchina fotografica con i suoi risparmi. 

Fin da subito affascinato dal catturare le storie e I volti dei suoi concittadini, approda alla fotografia con droni, unici strumenti attraverso i quali può mostrare sia la bellezza sia la distruzione che oggi dilaga a Gaza e non solo. L’obiettivo di Shadi Nael Al-Tabatibi, come lui stesso ci dice, pone l’attenzione sulla resilienza del suo popolo, sulla bellezza, vuole essere testimone e portavoce di storie che devono essere conosciute e ricordate.
Il suo lavoro come fotoreporter è stato pubblicato da agenzie internazionali fra cui “Agence France-Press (AFP) “e “Getty Images”.

Recentemente le sue foto sono sbarcate anche in Italia grazie alla mostra fotografica collettiva “I Grant You Refuge”, curata dal fotografo Paolo Patruno. 

Per concludere, cito le parole di Shadi Nael Al-Tabatibi, pronunciate proprio in onore della mostra “I Grant You Refuge”: “I ​​fotografi non sono immuni alla violenza che documentano, stando quotidianamente sulla linea di fuoco, sono presi di mira proprio come le persone tra cui si trovano. Ogni clic delle loro macchine fotografiche potrebbe essere l’ultimo, ma continuano nel proprio lavoro perché le loro storie, le loro voci e la loro esistenza contano. Attraverso i loro obiettivi, si sforzano di preservare la verità e l’umanità, sperando che le immagini possano rompere le barriere dell’indifferenza e accendere la solidarietà. A Gaza, dove la vita e la morte sono spesso separate da singoli istanti, questi fotografi non scattano solo foto, le vivono. Ogni scatto è un battito cardiaco, ogni immagine è una testimonianza. Queste storie, crude e senza filtri, devono essere condivise per ricordare al mondo le lotte, i sacrifici e la speranza incrollabile di ogni fotoreporter, di ogni palestinese.” 

Di seguito trovate i link per prendere visione delle opere dei singoli artisti:

Karimeh Abbuf;https://www.onefineart.com/artists/photographers/Karimeh-Abbud

Jaafar Ashtiyeh; https://www.gettyimages.it/immagine/jaafar-ashtiyeh?page=2

Samar Abo Elouf; https://www.gettyimages.it/immagine/samar-abu-elouf

Fatima Shbair https://www.latamarte.com/en/artists/7Y1b

Shadi Nael Al-Tabatibi;

https://www.shadi-altabatibi.com/photo-gallery

“Vita da Carlo-Stagione finale”:Verdone, i giovani e il centro sperimentale

Di Filippo Ciriaci

Dopo il grande successo delle prime tre stagioni, Carlo Verdone torna con l’ultimo capitolo della sua fortunata serie “Vita da Carlo”. In questa parentesi televisiva, che dura orma da cinque anni, Verdone esprime sé stesso, la sua vita, i suoi comportamenti con le persone a lui più care (la sua ex moglie, i suoi figli, i suoi amici, i suoi colleghi) ma anche con i suoi fan, dove ovviamente non mancano anche delle parti romanzate.

I primi quattro episodi della quarta stagione sono stati presentati in anteprima il 26 ottobre 2025 alla Festa del Cinema di Roma. Ad accoglierlo all’entrata del red carpet, tantissimi fan in delirio dotati di cellulari per scattarsi qualche foto, dvd, poster e libri da farsi autografare. Presente anche buona parte del cast di questa stagione, i produttori (Aurelio e Luigi De Laurentiis), gli sceneggiatori (Luca Mastrogiovanni e Pasquale Plastino) e il secondo regista Valerio Vestoso. Durante tutta la sfilata e le interviste sul red carpet è stata proposta buona parte delle colonne sonore dei film di Carlo Verdone e durante il servizio fotografico nella cavea dell’Auditorium un coro gospel ha intonato a cappella “Acqua e sapone”, colonna sonora di uno dei suoi film più amati.

Ma vediamo alla trama. Dopo essere stato candidato a sindaco di Roma (prima stagione), aver provato a girare un film autoriale ma senza alcun successo (seconda stagione), aver accettato la mansione di direttore artistico del Festival di Sanremo con tragici risultati (terza stagione) stavolta a Carlo Verdone viene assegnato un ruolo molto curioso e abbastanza importante.

La serie si apre con un Carlo Verdone quasi a fine carriera, ormai triste e depresso, in ritiro a Nizza dove ormai sembra aver trovato la sua dimensione ideale, dopo la brutta figura fatta al Festival di Sanremo nella stagione precedente. Tornato a Roma per il funerale del suocero, gli viene proposto di assumere il ruolo di professore di regia al Centro Sperimentale di Cinematografia a Cinecittà. Inizialmente declina l’invito, affermando addirittura di non avere più niente da dire e di non aver lasciato niente al pubblico italiano. Quando però, in aeroporto pronto a ripartire per Nizza, ascolta di nascosto un gruppo di ragazzi ripetere le battute dei suoi film, si convince a ricoprire quest’incarico con grande energia. Come collega al Centro Sperimentale troverà Sergio Rubini in veste di docente di recitazione, con il quale condivise il set nel 1992 per il film “Al lupo! Al lupo!”. Si trova così alle prese con gli studenti del C.S.C., tra chi lo ama e chi lo detesta. Affida ai suoi alunni il compito di scrivere e girare un film corale sulla solitudine, cercando di prendere spunto dalla vita di tutti i giorni, cogliendo i particolari nelle persone che incontreranno sulla metro, per strada, al bar. Si creerà una grande alchimia tra il professor Verdone e i suoi studenti che finalmente avranno una possibilità nel mondo del cinema. Inoltre, spicca l’ultima grande interpretazione di Alvaro Vitali, che come è stato mostrato al termine delle quattro puntate, nella sezione “nei prossimi episodi”, assumerà un ruolo inedito e poetico. La serata si è conclusa con i titoli di coda che scorrevano sulle note della famosa “Acqua e sapone”. 

Al termine della proiezione, Carlo Verdone applaudito dal pubblico in sala, prende il microfono, ringrazia tutti dalla produzione, ai tecnici e i collaboratori, per arrivare al cast artistico e pronuncia un discorso molto bello e significativo per i giovani, specialmente quelli che tentano la strada del cinema.

“Facendo i provini per questa quarta stagione mi sono reso conto che c’è una generazione di ventenni a cui vale veramente la pena dare una chance in questo lavoro. Lo dico anche perché abbiamo bisogno di un ricambio generazionale e personalmente ho trovato dei ragazzi preparati, molto bravi e talentuosi. Diamogli fiducia”.

Con queste parole afferma che la quarta stagione è dedicata proprio ai ragazzi che vogliono rapportarsi con il cinema, una sorta di passaggio di testimone alla generazione dei ventenni.

La prima stagione è disponibile su Amazon Prime Video; la seconda e la terza su Paramount Plus.

La quarta stagione sarà disponibile su Paramount Plus dal 28 novembre.

Dino Risi: “I mostri” della vita quotidiana

Di Chiara Pascucci

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’ondata del Neorealismo nel cinema raccontava fame e morte. Lo Stato cerca in breve tempo di spegnere il lume di questa nuova corrente; nessuno aveva in mente ancora di concentrarsi su quello che era stato. Il cinema sentiva la necessità di risorgere, di condurre lo spettatore al divertimento, di riconquistare un posto all’interno dello scenario internazionale. La chiave di tutto fu la commedia: gli spettatori non accettavano di guardare lucidamente la miseria in cui erano sommersi, ma adoravano guardarsi rappresentati in chiave comica. Negli anni ‘60, con l’avvento del boom economico, la commedia affila i propri coltelli, e si dedica ad una critica lucida ed aspra sui comportamenti umani tipicamente italiani. La commedia all’italiana è una commedia del riso, ma anche della riflessione, fatta di quel retrogusto amaro lasciato dietro ad una risata che sembra apparentemente goliardica. Siamo di fronte forse ad uno dei fenomeni più importanti della nostra storia: un cinema che è in grado di cogliere gli aspetti più autentici della nostra società, di riconsegnarli in chiave ironica per far luce sui nostri difetti peggiori. Una vera e propria presa di coscienza sociale involontaria, mascherata da personaggi iconici e storie bizzarre.

Uno degli esempi più lampanti è rappresentato da “I mostri” di Dino Risi, 1963; sceneggiato da Agenore Incrocci, Ruggero Maccari, Elio Petri, Dino Risi, Furio Scarpelli, Ettore Scola, il film ci mostra una vera e propria carrellata di mostri quotidiani.

Una serie di episodi ci raccontano in maniera diversa individui spregevoli, approfittatori, ipocriti, tutti inseriti nella società degli anni ‘60. La chiave fondamentale del film è la sua contemporaneità: gli individui non rimangono relegati alla propria dimensione storica, ma risultano incredibilmente attuali anche agli occhi di noi spettatori postmoderni. Questo risultato dipende forse dall’inevitabile banalità del comportamento umano; un comportamento che esula da qualsiasi dimensione temporale, ma fa riferimento a tutta una serie di atteggiamenti che l’uomo continua inevitabilmente ad attuare. Protagonisti del film, due indimenticabili Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi. I due veri mattatori per eccellenza, che con abilità si fanno strada tra personaggi completamente diversi, o per meglio dire, tra maschere diverse. La forza de “I mostri” risiede anche nella dimensione estetica. Per accentuare la loro moralità oscura, ogni personaggio presenta caratteristiche fisiche profondamente grottesche. Il grottesco gioca sull’ambiguità del mostro. Emblematico l’episodio che porta questo nome: due poliziotti scortano un pericoloso criminale che ha sterminato interamente la sua famiglia; al grido di una foto da parte dei giornalisti per immortalare “il mostro” – si aprirebbe tra l’altro un discorso sulla spettacolarizzazione della cronaca nera- i due poliziotti si mettono in posa, rivelando caratteristiche fisiche esilaranti ed orrende. La commedia ci sta chiedendo: chi è davvero il mostro qui?

La struttura ad episodi contribuisce a dare respiro al film: tipico di questa formula è mischiare episodi d’impatto, con episodi più deboli dal punto di vista della sceneggiatura. Questo aiuta lo spettatore a non rimanere inerte di fronte alla critica più aspra, e di conservare l’effetto sorpresa per gli episodi con un messaggio più importante.

Il meccanismo comico è chiaro: parlare di un qualcosa, con determinate caratteristiche, che possa poi essere completamente sovvertito sul finale, lasciando lo spettatore esterrefatto.  Mi viene da pensare all’episodio “Che vitaccia!” Dove un Gassman povero padre di famiglia numerosa, disperato nel non riuscire neanche a garantire le cure per il proprio figlio malato, preferisce comunque alla fine dell’episodio spendere gli ultimi spiccioli per andare a vedere una partita allo stadio; terribile, ma davvero così poco plausibile?

La satira però non si limita a questo, ma colpisce ogni ambito della società: la coppia, con l’episodio intitolato “L’oppio dei popoli”, dove un marito non si rende conto dell’amante della moglie a casa, perché troppo intento a guardare la televisione; il rapporto padre e figlio con “L’educazione sentimentale” -una chiave comica sulla scia de “I bambini ci guardano” di De Sica- dove un padre impartisce una serie di insegnamenti furbetti e maschilisti al figlio, con tragedia finale. Torna la macchina, lo status symbol, con “Vernissage” dove un padre di famiglia compra una nuova fiat 500, simbolo di benessere, e dopo averla decorata con santini e foto dei figli, ci fa salire sopra una prostituta. Siamo di nuovo di fronte all’ipocrita borghesia. 

Neanche il teatro e il cinema sfuggono all’occhio cinico della comicità, con “La raccomandazione” e “Presa dalla vita”, dove vediamo anche una sottile parodia di Fellini.

Una parte della satira si dedica anche alla crisi della virilità, alla presa in giro dello stereotipo maschile tipico della commedia del boom, con “Latin Lovers”.

Ma in assoluto l’episodio più importante è proprio quello finale; Intitolato “La nobile arte”, seguiamo da vicino il vecchio pugile Guarnacci (Tognazzi) che cerca di combinare un incontro impari tra il campione del momento, e Artemio Altidori (Gassman), pugile ormai suonato ed in pensione, che vive al mare con la moglie. Le lusinghe lo fanno cedere, e nonostante non sia più in grado di poter combattere, accetta, per rivivere le glorie di un tempo. Ovviamente perde, ma non senza conseguenze gravi che lo porteranno ad una grave menomazione fisica e mentale, permanente. La sequenza finale stona un po’ con tutto quello che gli episodi ci hanno insegnato. La risata è sparita, i mostri che ci hanno fatto sorridere diventano il peso di una vita amara, fatta d’ingiustizie, rimpianti, sopraffazioni. Su questa spiaggia quasi desolata, luogo cardine in cui l’uomo si spoglia dei vestiti sociali, vediamo il povero Altidori ormai su una sedia a rotelle, mentre segue contento un aquilone che vola sopra la sua testa, guidato dal suo collega Guarnacci. 

La moglie da lontano ci dice che non soffre, è come se fosse un bambino, ed è contento. L’infantilismo ha preso piede, l’umorismo si è spento, è rimasta l’amarezza; come se in questa sequenza si guardasse lo scheletro di una società ormai alla deriva. A questo abbiamo assistito per tutto il film. Il personaggio di Altidori ripeteva in continuazione “so’ contento”, metafora di una volontà di essere felici ad ogni costo, ma forse in una società che non permette di esserlo fino in fondo. Questo era il boom, questa era la vera essenza dei mostri, i nostri personali mostri, che conosciamo bene e che a volte forse si nascondono ancora dentro di noi.

Come si sta volgendo la situazione in Nepal e cosa c’entrano i Nepo Babies?

di Francesca Insogna

Guardando le immagini dal telegiornale può sembrare difficile capire la correlazione tra disuguaglianza socioeconomica e restrizioni sui social media.

Eppure nel 2025 il Nepal si presta come teatro di scontro tra questi due temi: da una parte le disuguaglianze economiche crescenti riducono la classe media, dall’altra l’uso sempre più pervasivo dei social spinge a interrogarsi su quali limiti imporre.Due sono stati i talloni d’Achille del governo di Sharma Oli, ex primo ministro del Nepal, dopo l’abolizione della monarchia del 2008. Khadga Prasad Sharma Oli, esponente dal 1970 del Partito Comunista Nepalese, ha ricoperto numerosi incarichi istituzionali fino a diventare premier per la terza volta nel luglio 2024.Uno dei problemi chiave del governo nepalese è il livello dilagante di corruzione. Il Prevention of Corruption Act dovrebbe combattere corruzione, tangenti, riciclaggio e abusi d’ufficio, ma il sistema giudiziario resta percepito come altamente corrotto: secondo il Global Competitiveness Report 2015, 3 cittadini su 4 ritengono che i giudici accettino tangenti, mentre la polizia è percepita inefficiente e corrotta.Il World Bank Enterprise Survey 2013 evidenzia pratiche corruttive diffuse nel servizio pubblico: regali e pagamenti informali sono spesso necessari per ottenere permessi o appalti. Più di due terzi delle aziende si aspettano di dover offrire tangenti per ottenere contratti pubblici, nonostante la legge richieda gare aperte e competitive. Anche pagare le tasse è un processo lungo e complesso: occorrono 334 ore all’anno e 34 procedure, e le tangenti restano frequenti.Ebbene, ora che abbiamo fatto il quadro della situazione, cosa centrano i social media?Secondo Al-Jazeera**, il governo nepalese ha imposto alle grandi compagnie social di registrarsi entro il 3 settembre 2025 presso il Ministero delle Comunicazioni e della Tecnologia dell’Informazione, indicando un referente locale, un responsabile dei reclami e un supervisore per l’autoregolamentazione, pena la chiusura. La misura è stata motivata come contrasto all’odio online, alle voci infondate e alla criminalità informatica.Precedentemente al bando infatti, è esploso il fenomeno dei Nepo Babies su TikTok: i figli della classe agiata nepalese hanno mostrato sui social interni di case lussuose, feste, immobili e macchine di lusso, così distanti dalla vita del cittadino medio da alimentare frustrazione e rabbia. Milioni di commenti d’odio sono stati lasciati sotto questi post.Il Committee to Protect Journalists (CPJ) ha avvertito che la decisione avrebbe potuto limitare l’informazione e l’accesso democratico alle notizie.

Però, il ministro Prithvi Subba Gurung si aveva ribadito la linea del governo che alle piattaforme era stato concesso tempo sufficiente per registrarsi, ma Meta, Google e Snap non hanno adempiuto alle regole nazionali .I social media in Nepal non sono solo relazioni sociali: sono strumenti professionali ed economici.

Nel 2024 il tasso di disoccupazione ufficiale era del 10,7 %, con il 20,8 % tra i giovani 15‑24 anni. Circa il 29 % delle imprese non rispetta il salario minimo (17.300 rupie/mese), mentre il 62 % dei lavoratori è impiegato informalmente e molti percepiscono salari inferiori al minimo, senza copertura sociale-sanitaria. L’87 % degli utenti utilizza i social per lavoro o scopi professionali, e l’81 % per attività legate all’impiego, secondi un Survey di Data Users in Nepal 2024. Il ban sui social ha quindi impatto anche economico: visto che i lavori tradizionali in Nepal hanno poco successo, i lavori nel mondo social di contro hanno più attrattiva.

Le proteste in corso sono guidate principalmente dalla **generazione Z**, cresciuta con i social, e rappresentano la combinazione di disuguaglianza economica, corruzione e restrizioni sulle piattaforme digitali. Ed hanno avuto tanto successo. Il ban imposto dal governo nepalese mette in evidenza quanto il controllo delle piattaforme digitali possa impattare economia, comunicazione e diritti civili. Per l’Italia, con una popolazione molto attiva online, insegna l’importanza di trovare un equilibrio tra sicurezza digitale, lotta all’odio online e libertà di informazione, evitando misure eccessive che possano danneggiare cittadini e imprese.

In Nepal la corruzione sistemica ha aggravato le tensioni sociali. L’Italia può trarne un monito: trasparenza, legalità e applicazione coerente delle norme sono fondamentali per mantenere la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. La percezione di ingiustizia o favoritismi alimenta malcontento e sfiducia.

La determinazione dei giovani nepalesi ha portato a nuove elezioni, nuovi strumenti digitali con cui eleggere il proprio governo, ridefinendo tramite il ruolo dei social la vita politica e civile del Nepal, come mai visto prima.

Che cosa fare quando il mondo sembra impazzire?

di Francesca Insogna

Primo step: inspira profondamente, perché senza ossigeno non si va da nessuna parte.Step secondo: cerca di non respirare l’aria ricca diinfluenza o altri virus respiratori, che negli ultimi mesi hanno mandato a letto il 27,7% degli italiani, ovvero circa 16,1 milioni di sfortunati connazionali — un vero record da Guinness della stagione influenzale. Step terzo: evita il “doomscrolling” mattutino, ovvero quell’arte raffinata di buttarsi a capofitto in tutte le notizie più negative appena sveglio. Il tuo cuore ti ringrazierà, perché questa pratica è come un centrifugato di stress e ansia che fa male sia al corpo che alla mente. Dal punto di vista psicologico, la predisposizione a lasciarsi assorbire da notizie negative è legata, in parte, al negativity bias, la tendenza del cervello umano a concentrarsi maggiormente sugli stimoli negativi rispetto a quelli positivi.Step quarto: non sentirti obbligato a fare il diplomatico-politico con ogni persona che incontri. Soprattutto se la conversazione riguarda Greta Thunberg, passeggera della nave Maddeleen, che è stata catturata insieme allo staff e portata nei territori di Israele, dove le autorità le hanno chiesto di firmare un documento in cui avrebbe dovuto dichiarare l’intenzione di entrare illegalmente nel Paese. L’episodio della cattura in acqua internazionali ha scatenato una forte mobilitazione in Svezia e in altri Paesi, con una campagna di telefonate e pressioni dirette all’ambasciata israeliana per ottenere il suo rilascio. Poco dopo, infatti Greta è stata liberata. Israel Katz, Ministro israeliano all’epoca della Difesa di Israele, ha liquidato l’intera vicenda definendo la Maddeleen “una nave di selfie”, minimizzando l’azione come una mossa mediatica. Né del fatto che circa 5 giorni fa, si è tenuto un importante voto in Parlamento israeliano, la Knesset, su una proposta per scioglierlo— una mossa che rappresentava una seria minaccia per il suo governo. La maggioranza della coalizione ultra ortodossa ha però respinto la dissoluzione proto-parlamentare, garantendo a Netanyahu un “respiro”. Questo è stato il più significativo tentativo di sfidarlo alla guida del Paese finora durante la guerra in Gaza. Guerra che si è appena evoluta con un espansione a sorpresa. Dal 13 giugno 2025, Israele ha lanciato una serie di attacchi aerei e missilistici contro obiettivi strategici in Iran, tra cui impianti nucleari come quelli di Natanz e Fordow, strutture militari, depositi di armi e la sede della televisione di Stato iraniana (IRIB) . Fortunatamente sono state colpite solo le basi industriali che trasformano l’uranio gassoso in solido, non i depositi di materiale radioattivo, evitando così un effetto a catena nella regione.Curiosamente, il JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action), l’accordo sul nucleare iraniano firmato nel 2015 tra Iran e potenze mondiali (USA, Regno Unito, Francia, Russia, Cina, Germania e UE), mirava a limitare il programma nucleare iraniano in cambio della revoca delle sanzioni economiche. Tuttavia, durante il suo primo mandato (2017-2021), il presidente Donald Trump definì il JCPOA un accordo difettoso, accusandolo di non affrontare adeguatamente le attività militari iraniane, il programma missilistico e il sostegno di Teheran a gruppi militanti regionali. Nel marzo 2025, Trump aveva inviato una lettera al leader supremo iraniano Ali Khamenei, proponendo nuovi negoziati sul nucleare, ma l’Iran aveva rifiutato dei colloqui diretti, accusando gli Stati Uniti di “intimidazione” e rifiutando di negoziare sotto pressione. Nonostante ciò, l’Iran aveva mostrato apertura a trattative indirette, rispondendo il 27 marzo con la disponibilità a colloqui mediati da paesi neutrali come Oman, che mantiene rapporti cordiali con entrambe le parti. Le trattative indirette erano previste a breve termine nel corso del 2025, con l’obiettivo di riprendere il dialogo sul nucleare nei mesi successivi alla primavera. Sicuramente, ora, i toni saranno più leggeri, dopo che Trump ha invitato a tutti i cittadini della capitale di sgombrare, creando file chilometriche sulle strade.Viviamo in tempi rilassanti. Russia e Ucraina sono ancora in conflitto armato, mentre Cina, Pakistan e India navigano tensioni geopolitiche regionali con manovre diplomatiche e militari in corso.Quando il mondo sembra impazzire, la letteratura ci offre non tanto soluzioni quanto domande più profonde, spazi di resistenza e possibilità di comprensione. Da secoli, scrittori e pensatori hanno affrontato una questione essenziale: come vivere quando la realtà è travolta dalla guerra e dal collasso sociale?Ma cosa succede quando la guerra non è qui, ma altrove? Quando la violenza è immediatamente visibile sugli schermi, ma distante nella geografia? Autori come Susan Sontag, nel suo saggio fondamentale Regarding the Pain of Others, ci ricordano che assistere al dolore altrui da lontano non è mai un atto neutro. Guardare immagini di guerra – dalla Bosnia alla Siria, da Gaza all’Ucraina – ci pone di fronte alla responsabilità dello sguardo: continuare a guardare, senza assuefarsi. Sontag ci ammonisce: l’osservatore distante rischia di oscillare tra il voyeurismo e l’indifferenza, ma la sfida è proprio quella di restare presenti, senza chiudersi.Nadine Gordimer, che ha scritto a lungo sull’apartheid e sulla violenza strutturale in Sudafrica, ci insegna che vivere in tempo di crisi, anche quando non si è direttamente coinvolti nel conflitto, significa assumere una posizione. L’indifferenza è essa stessa una scelta. Colin McInnes, nei suoi studi sulla comunicazione di crisi (Spectatorship, Suffering, and the Public Sphere), riflette su come i conflitti internazionali abbiano trasformato la posizione dello spettatore moderno: siamo chiamati a una responsabilità emotiva e cognitiva che ci costringe a domandarci come reagire, come informarci, come testimoniare senza essere fisicamente sul campo. Nel mondo moderno purtroppo la distanza geografica non elimina la prossimità morale. Robert C. Evans, in Critical Insights: Literature in Times of Crisis, suggerisce che proprio nei momenti di crisi globale, la letteratura ci aiuta a resistere all’anestesia morale. In un’epoca in cui la guerra è mediatizzata, la testimonianza letteraria diventa un atto di custodia: raccogliere, ricordare, raccontare – anche quando non siamo le vittime dirette.Così, vivere in un tempo in cui il mondo sembra impazzire, anche se noi non siamo sotto le bombe, significa scegliere di non voltarsi, significa abitare le contraddizioni, continuare a chiedere, continuare a ricordare. La letteratura non ci protegge dalla complessità, ma ci insegna ad attraversarla e soprattutto a non perdere la testa. Perché, in fondo, il mondo non è cambiato così tanto, né è davvero impazzito. Guerre, crisi, ingiustizie, collassi sociali: tutto questo è sempre esistito. La nostra epoca non è un’eccezione nella storia, semmai è una stagione in cui tutto ci appare più vicino, più visibile, più incessante. È il flusso continuo di immagini, notizie e connessioni globali a farci percepire un’accelerazione che spesso ci disorienta. Ma la letteratura, la memoria storica e il pensiero critico ci aiutano a rimettere le cose nella giusta prospettiva: ci ricordano che l’umanità ha sempre vissuto tra disordine e tentativi di ricomporre della vita un senso. Non c’è una linea di confine netta tra tempo di pace e tempo di guerra, tra stabilità e crisi: ci sono, piuttosto, condizioni che si ripetono e ci fanno oscillare tra violenza e solidarietà, tra crolli e rinascite, tra il vecchio ed il nuovo. Non perché tutto tornerà a essere semplice, ma perché da sempre è stato complesso.

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